Se si perde il senso dello Stato

Luigi La Spina – La Stampa – 3 giugno 2019

Neanche la festa più solenne del nostro Stato, la Festa della Repubblica, è passata indenne da una becera polemica propagandistica, perché definirla politica offenderebbe quella attività umana che Aristotele riteneva più nobile.

Era già successo durante le celebrazioni per il 25 aprile, quando il Presidente Mattarella, sulla scia del rilancio del sentimento patriottico nazionale voluto dal suo predecessore Ciampi, aveva parlato della Resistenza come “secondo Risorgimento” e Salvini si era sottratto alle celebrazioni ufficiali con la scusa di inaugurare una sede di polizia a Corleone. Ora si è dovuto assistere a un’altra miserevole strumentalizzazione di una ricorrenza fondamentale per gli italiani, quella che ricorda, dopo il fascismo e la guerra civile, la costituzione di uno Stato repubblicano sulla base del valore della libertà e democrazia. Grave è stato che proprio la terza carica della Repubblica abbia innescato una assurda polemica. Un presidente della Camera dovrebbe essere consapevole della sua responsabilità istituzionale nell’impegno alla coesione politica e sociale del nostro Paese e, quindi, a non alimentare pretesti di divisioni tra i suoi concittadini. Perché la festa più importante della Repubblica non si dedica a nessuno, dal momento che non è la conquista di un premio, ma il ricordo di valori che uniscono tutti, conquistati a prezzi di enormi sofferenze e lutti e, perciò, patrimonio della nazione intera. Altrettanto grave è che il vice-premier del governo abbia subito colto l’occasione per ripetere lo slogan del “primi gli italiani”, perché valori come democrazia e libertà non si vincono in una gara di cora o una graduatoria di un concorso.

Peccato che questo squallido battibecco sia avvenuto a meno di 24 ore dal preoccupato appello che il presidente delle Repubblica aveva rivolto durante la festa al Quirinale, con parole quasi profetiche rispetto a quello che è avvenuto il giorno dopo: “libertà e democrazia non sono compatibili con chi alimenta i conflitti, con chi punta a creare opposizioni dissennate tra le identità, con chi fomenta scontri”. Frasi che fanno comprendere come Mattarella sia giustamente timoroso delle conseguenze sulle sorti del nostro Paese di un clima in cui non solo la classe politica italiana, ma l’intera classe dirigente, siano sempre più tentate di abdicare alle proprie responsabilità.

Sintomatico, a questo proposito, è stato anche un altro episodio che ha contribuito a guastare un clima di unità nazionale, la celebrazione di quello che una volta si chiamava “sentimento dello Stato”. La diserzione, cioè, dalla parata del 2 giugno di alcuni generali, in polemica con il governo e, in particolare, con il ministro della Difesa. Alti ufficiali delle nostre Forze Armate dovrebbero essere ben consapevoli del loro delicatissimo ruolo di “servitori dello Stato” e che la loro lealtà istituzionale non può ammettere gesti di tale clamorosa dissociazione. Una dissociazione pubblica e, per di più, nell’occasione più solenne per un militare, la sfilata del 2 giugno. I motivi del dissenso possono essere condivisi o meno, ma l’espressione della critica, alla luce proprio di quel loro compito fondamentale per l’equilibrio dei poteri che la Costituzione delimita in modo così rigoroso, non deve mai prestarsi, come immediatamente è avvenuto, a speculazioni politiche. In Italia si sta diffondendo un fraintendimento pericoloso. Si ritiene che il rispetto di presunte antiquate forme di galateo istituzionale, il rispetto di un presunto ipocrita linguaggio di correttezza politica, il rispetto per la dignità del ruolo che si ricopre siano maschere ipocrite che vadano abbattute, in nome della cosiddetta “democrazia del popolo”. Il loro disprezzo, invece, segnala una verticale caduta del senso dello Stato tra i cittadini e tra la classe dirigente, preludio inquietante della perdita proprio della nostra democrazia, quella senza aggettivi, né genitivi.

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