Nemici in guerra abbiamo perso tanto, ma alleati in vita abbiamo vinto tutto

Ravenna, 19 maggio 2015

Il lavoro presentato dai ragazzi della classe 3B della scuola Don Minzoni prende spunto da interviste di nonni o bisnonni che hanno vissuto la guerra a Ravenna o nella campagna circostante, spesso come sfollati. I ragazzi hanno poi realizzato elaborati individuali che sono poi stati assemblati in un unico scritto che coinvolge  tutte le testimonianze raccolte.

Questo scritto non è una mera sintesi, ma è stato trasformato in un racconto, che riporta un episodio accaduto durante la seconda guerra mondiale: un soldato tedesco ferito, disperato ed affamato è stato accolto e nascosto da una famiglia italiana. Ne riportiamo alcune parti.

Una sera Elisa chiede a sua nonna di non raccontarle le solite storie inventate, e la nonna decide di narrarle quanto lei ha vissuto durante la seconda guerra mondiale. “ Fuori dalla nostra casa c’era la guerra, c’erano persone che morivano ad ogni istante, c’erano grida e c’era tanta paura. Avevano detto che la guerra sarebbe stata un’azione temporanea, che sarebbe durata poco, ma noi lo sapevamo che non era così, erano solo chiacchiere. Nessuno aveva intenzione di vivere così tanti anni nel terrore, così avevamo deciso di dimenticare tutto e vivere come sempre facevamo.

Era inevitabile che il ricordo della guerra sarebbe, però, rimasto nelle nostre menti per l’eternità.  Era il 1943, l’anno nel quale il fratello dell’architetto Pera vide in mano a un ufficiale tedesco una pistola che l’aveva colpito particolarmente per la sua forma e la disegnò su un foglio. Questo disegno venne scoperto da un ufficiale delle SS e il povero ragazzo fu accusato di spionaggio, arrestato e fucilato senza processo in campagna. Fu l’anno in cui il sacerdote Don Mei nascose nei locali della Chiesa alcuni ebrei e giovani partigiani, ma venne scoperto e fucilato sotto le mura del cimitero. Fu l’anno in cui lo zio Carlo tornò a casa dalla guerra, dopo aver perso una gamba durante un attacco. Quello fu l’anno in cui trovammo nel fosso vicino a casa un ragazzo dell’esercito tedesco ferito.

Resterà qui per una sola notte, questo non è un ospedale per i nemici’ disse brusca la mamma mentre gli slacciava l’elmetto. ‘Mamma! Non lo vedi? È ferito! Ha bisogno di cure’ ‘È UN NEMICO!’ mi gridò lei.

Fu in quel momento che capii: ‘Francesi, Tedeschi, Austriaci, Americani, Inglesi… nemici e alleati, sconfitti e vinti, siamo tutti delle persone. Siamo tutti degli uomini, quali discriminazioni si sono create, mamma! Uccidere una persona come te perché così lo Stato ti ha ordinato, questa non è guerra, questo è un enorme assassinio!’- La mamma mi fulminò con uno sguardo, aprì la bocca, ma non riuscì a dire nulla. Si gettò su una sedia e cercò di riprendere fiato. Forse la mamma lo sapeva già, sapeva che eravamo tutti uomini, ma aveva deciso di unirsi all’opinione comune per proteggerci.

Presentava una grossa ferita da arma da taglio proprio sotto il collo. Non sapevamo il suo nome, per noi era solo il ragazzo tedesco. Mi piaceva guardarlo per intere giornate nella speranza che potesse risvegliarsi. Volevo che aprisse gli occhi perché ero curiosa di vedere il colore delle sue iridi; lo zio Carlo diceva che dovevano essere come il colore del fuoco e che dentro i tedeschi bruciavano le fiamme dell’inferno. Io, invece, mi sedevo accanto lui qualche pomeriggio, gli prendevo le mani e sfioravo delicatamente le cicatrici che ricoprivano i suoi polsi. Se chiudevo gli occhi riuscivo a vedere quello che era successo e come se le era procurate. Sentivo gli spari, percepivo il freddo che lo avvolgeva, le grida di morte, ma anche le risate dei compagni, la paura e gli abbracci scambiati. Era un ragazzo giovanissimo, aveva diciannove anni, appena un anno in più dei miei e gli piaceva fumare, aveva iniziato quando era entrato nell’esercito e non era più riuscito a smettere. Gli piaceva ascoltare la musica, così qualche notte portavo da lui una piccola radio che ci aveva lasciato papà e ascoltavamo Radio Londra, anche se era severamente proibita.

Una notte non riuscivo a prendere sonno e accesi la radio. C’era quella canzone che ci piaceva tanto, in silenzio entrai nella sua camera. Non appena sentì le note della canzone sorrise:  ‘Balliamo’- mi disse sottovoce. Non volevo che si alzasse dal letto ma era troppo tardi, lo ritrovai in piedi davanti a me. Era tutto buio, ma i suoi occhi brillavano come alla luce del sole. Mi afferrò una mano e mi strinse i fianchi, mosse un piede poi l’altro; io appoggiai la mia testa sulla sua spalla e mi lasciai trasportare.

Se quello ero davvero un mio nemico allora avevo vinto la guerra, entrambi l’avevamo fatto.
 
Classe 3B della Scuola Don Minzoni,  in particolare:
Cacciari Carlotta
Casadei Alice
Emaldi Beatrice
Schiavone Alessandro

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