IL FIUME di parole speso attorno all’elezione di Mattarella, “novità” che ha radici in una delle culture politiche più antiche dell’Italia moderna (quella cristiano-sociale), lascia sul campo una sensazione ineludibile: che quel poco o quel tanto di decente di cui la politica italiana dispone risale alla Prima Repubblica. Non stiamo parlando di anagrafe e dunque di persone; stiamo parlando di idee, di visioni della cosa pubblica, di calibro culturale. E questo significa, detta un po’ all’ingrosso, che ciò che abbiamo chiamato forse affrettatamente Seconda Repubblica ha lasciato sul terreno abbastanza poco: populismi assortiti (tanto virulenti quanto effimeri), secessionismo abortito, culto dei Capi, corruzione perfino rinvigorita e una notevole sbracatezza di modi e di parole.
Non è una constatazione nostalgica. È che alla luce dei fatti suonano più moderne, ovvero più adeguate alla sfida del presente e del futuro, le parole della Costituzione (che è scritta benissimo, tra l’altro, asciutta e non retorica) piuttosto che quelle di una convention degli anni Novanta. È la stessa ragione “estetica” per la quale molte trasmissioni Mediaset (e della Rai scimmiottante) di dieci o vent’anni fa paiono, a rivederle, molto ma molto più datate di uno Zavoli o di uno Studio Uno o di un Nanni Loy degli anni Sessanta e Settanta.
Da La Repubblica del 05/02/2015