di EZIO MAURO
Nella crisi causata dalla pandemia si entra tutti uguali, ma si rischia di uscire diversi. Non solo in relazione ai tempi, ai modi, alla virulenza della minaccia e dei differenti metodi di contrasto impiegati dai Paesi. Ma addirittura in rapporto alla natura del nostro sistema politico-istituzionale, alla sua morfologia e alla sua stessa fisiologia. Perché mentre il potere attacca il virus, il virus ha già intaccato il potere. Non è lui che muta, come temevamo nei peggiori incubi: si sta accontentando di modificare noi, cioè il rapporto tra i cittadini e lo Stato, perché trasforma sotto i nostri occhi l’immagine e il ruolo dell’autorità pubblica, il moderno sovrano.
Non c’è dubbio che il carattere inedito e insieme mortale dell’infezione universale richiede uno scarto rispetto al ritmo normale dell’azione politica. Serve rapidità nelle decisioni, tempestività, flessibilità, chiarezza nella catena di comando, centralizzazione del flusso di informazioni ufficiali. La crisi verticalizza il meccanismo decisionale, mette il governo direttamente di fronte ai cittadini, personalizza nel leader la domanda di sicurezza, porta la popolazione a raccogliere le sue libertà attorno al potere legittimo.
Non solo. Il governo in queste circostanze particolarissime si trova a esercitare un potere esclusivo, che viene prima delle scelte e delle decisioni, e le determina. Potremmo definirlo un potere di interpretazione della crisi, di sua definizione. È il governo, infatti, che ha la responsabilità di determinare contorni, velocità, pericolosità, profondità e durata del pericolo, e di registrare su questi parametri le contromisure.
Il potere pubblico non ha dunque in mano soltanto l’arma materiale della difesa collettiva, ma anche quella metafisica del disvelamento del male, del racconto ufficiale del suo procedere, facendo ogni giorno il fixing del rapporto tra la scienza, la medicina, la ricerca e il maleficio: che diventa per converso la borsa quotidiana della nostra paura.
Tutto questo è avvenuto ovunque: e ovunque ha determinato per meccanismo naturale un plusvalore di autorità, pronto naturalmente a dissolversi alla prima falla della sicurezza minacciata dei cittadini. Lo vediamo concretamente nella soggezione volontaria, da parte della grandissima parte della popolazione, alle norme straordinarie che forzatamente limitano i diritti individuali, prima fra tutti in questo caso la libertà di movimento. Qui siamo davanti all’esercizio concreto di questa potestà speciale conferita dalla crisi: l’esercizio di un potere disciplinare, di carattere universale, riconosciuto come lecito perché necessario dalla pubblica opinione.
La questione è l’uso che il potere pubblico intende fare di questo “di più” che la pandemia gli sta trasferendo in termini di potestà. Vuole usarlo al servizio dell’emergenza, spendendolo nella crisi, o al contrario pensa di usare l’emergenza per interesse privato, entrando in uno spazio sovrano che altrimenti gli sarebbe precluso?
L’autogolpe del premier ungherese Orbán (subito omaggiato dai sovranisti di casa nostra, ridotti a cercare negli autoritarismi altrui la forza smarrita in patria) che si assegna pieni poteri illimitati nel tempo, è la conferma del tragitto tracciato per anni dalle democrazie illiberali: che oggi trovano nella guerra contro il virus quel che cercavano in tempo di pace, e cioè la deroga permanente dal sistema dei controlli di legittimità delle Corti Costituzionali, di legalità da parte della magistratura, e dal controllo politico del parlamento e della libera informazione.
In questo senso lo stato d’eccezione compie il disegno autoritario dentro una falsa cornice democratica da due soldi: non accontentandosi del potere legittimo che si è conquistato, il leader si appoggia alle paure dei cittadini per estrarre dal caos dell’emergenza le norme speciali che superano la norma ordinaria, e fondano un nuovo ordine. Il messaggio per la nostra epoca è che in tempi speciali serve una forma di governo speciale, capace di istituzionalizzare il dominio e di purificare il comando, liberandolo dall’impaccio delle regole e dei bilanciamenti. La conseguenza di questo meccanismo psicopolitico è evidente: la democrazia, dice la lezione di Budapest, non è adatta a governare l’emergenza, funziona solo se deformata e ridotta a guscio vuoto: che aspettiamo?
Siamo dunque davanti a un triplice confronto, nella sfida tra gli Stati e la pandemia. La risposta del sistema totalitario cinese, quella autoritaria dei nazionalismi illiberali e quella apparentemente disarmata delle democrazie occidentali. Prendendo l’Italia come campione-pilota di quest’ultimo campo, dobbiamo ammettere che il sistema sanitario ha tenuto, il welfare ha dato un’altra prova di civiltà, la risorsa civile di generosità e di solidarietà di medici e infermieri ha fatto il resto. Il governo ha compiuto errori, soprattutto all’inizio. Ma vediamo giorno per giorno che li hanno commessi pressoché tutti i leader occidentali, con l’unica differenza che altrove non ci sono politici “ribassisti” che minacciano commissioni d’inchiesta per il dopo.
Nessuno da noi teme un abuso di potere. La realtà è che viviamo piuttosto uno squilibrio mai visto tra la debolezza del governo e della maggioranza e l’accumulo di potere che si raccoglie nelle sue mani. Ma non è in questo squilibrio la garanzia di un uso democratico dell’emergenza: piuttosto, nell’autocoscienza del sistema (maggioranza e opposizione) di dover porre via via nuovi limiti al potere man mano che la crisi lo rafforza: limiti di tempo, di trasparenza, di controllo delle Camere e della pubblica opinione.
È il meccanismo liberal-democratico che regge la prova capitale dell’eccezionalità, con le sue tentazioni. Una prova che vale per oggi e soprattutto per domani: quando rischiamo di trovarci in un continente dove lo stato d’emergenza diffuso diventa il sistema permanente di governo, e l’unica vera forma d’eccezione, dove resiste, è la democrazia liberale.