La teoria della lotta in pianura

La lotta in pianuraTra i leader partigiani c’è un confronto sulla strategia da tenere: guerra di montagna o guerra di pianura?

L’idea prima è quella di preferire la montagna, che offre certamente maggiori ripari naturali. I soldati che vengono dalla Jugoslavia e conoscono la lotta partigiana di Tito ne sono convinti sostenitori. Ritengono che le strade strette, la vegetazione, gli sperduti casolari offrano rifugio sicuro. Inoltre, le notizie che arrivano parlano di gruppi già presenti nelle colline bolognesi, toscane, marchigiane, di un coordinamento partigiano già esistente. Si tratta di partire, raccogliere giovani in squadre non numerose e raggiungere altri che si trovano sopra Forlì (a Santa Sofia, Tredozio, Premilcuore) e sopra Imola (a Casola Valsenio, Fontanelice, Castel del Rio).

Gradatamente, però, si forma un’altra idea: è possibile anche la lotta partigiana in pianura. Contano, in questo, alcune considerazioni pratiche e la conoscenza della storia sociale dei ravennati. C’è la consapevolezza che ogni uomo che progetta di nascondersi per un tempo ancora indefinibile, certo non corto, ha bisogno di un’assistenza quasi giornaliera: vitto, indumenti, medicinali se è il caso. E questa la può dare solo una popolazione amica e che condivide la lotta. Nelle cascine della larga campagna ci sono antifascisti pronti a offrire sostegno; anzi, si sa che qualcuno ha già approntato nascondigli per i familiari, si tratta di mettersi in contatto, di costruire una solida rete clandestina. E poi i tedeschi e i fascisti sono in pianura e nelle città; è, quindi, lì che c’è bisogno di un’organizzazione militare e politica.

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