La strage di Madonna dell’albero

La strage di Madonna dell’alberoA sud di Ravenna, subito dopo i Fiumi Uniti e il Ronco, in una zona agricola bassa di sott’argine, attraversata da un’unica strada, via Nuova, nel mese di novembre viene creata una terra di nessuno; un luogo dove i tedeschi non stazionano più in forze perché temono l’arrivo dell’avanguardia dell’esercito angloamericano.

Anche i partigiani del distaccamento Garavini presumono questo e intensificano la liberazione del territorio. Prima fanno prigionieri una decina di tedeschi che chiedono alimenti alla popolazione locale, e che non oppongono resistenza; poi, subito il giorno dopo, ne fermano addirittura 19, anche loro si lasciano disarmare senza opporre alcuna resistenza. Sono tutti alpini dell’Alpenjager, uomini duri e crudeli in tante occasioni.

Vi sono però attriti tra la popolazione e le forze tedesche, che continuano ad arrivare con le squadre sussistenza e a depredare le famiglie dagli animali da macello, dal pollame, ma anche di beni personali.

Il primo episodio serio riguarda un soldato austriaco portaordini, che passa per via Cella in bicicletta e viene fermato da alcuni uomini (non partigiani) condotto in una casa e dopo poco ucciso. Il corpo viene occultato e gettato con abiti civili nel fiume, ma il Comando di Ravenna non vedendolo arrivare manda una squadra che interroga, intimidisce pur non effettuando alcuna seria ritorsione sulle persone.

Poi muore il giovane Domenico Marzaloni, salta su di una mina. La popolazione resta sgomenta e il parroco, don Mario Turci, va sulla strada dov’è capitata la tragedia e si premura di segnalare con dei pezzettini di legno la posizione di alcune mine. Visto dai tedeschi viene immediatamente fermato, bastonato sul posto, condotto a Ravenna da dove non ritornerà più.

Il giorno 20 novembre cambia il Comando tedesco da cui dipende tutta la zona e il 27, all’ora del desinare, quattro soldati attraversano i Fiumi Uniti in zattera, prendono via Nuova, sono armati di mitra e chi li vede non li riconosce, è la prima volta che passano di lì (si suppone ancora oggi fossero SS), camminano lentamente.

Si fermano alla casa dei Rivalta e il proprietario, che è solo, gli va incontro sulla porta, subito gli sparano. Poi passano a casa Ricci, dove ben dieci persone si trovano all’interno dell’abitazione e stanno mangiando, le conducono fuori e nel cortile le uccidono tutte. Proseguono la strada e arrivano alle abitazioni di Chiari e Montanari, che vengono freddati all’interno e dilaniati con bombe a mano.

Attraverso i campi giungono in prossimità del Borghetto (due lunghe case popolari e un capanno di canne palustri per il ricovero attrezzi) e si dividono in due gruppi. Uno si ferma a casa Mazzotti e conduce le nove persone presenti nel cortile, l’altro preleva i componenti delle famiglie Corbari, Gualtieri, Suprani.

Tutti vengono chiusi nel capanno del Borghetto e poi uccisi a mitraglia. Si salva appena Mario Mazzotti perché caduto in una botte interrata non viene raggiunto dai colpi, e poi coperto dai morti e dai feriti non viene visto dai tedeschi che finiscono a colpi ravvicinati i moribondi.

I soldati tornano in città con lo stesso passo lento per la via Nuova, il giorno seguente ripassano per nascondere malamente i cadaveri in buche comuni e di fortuna.

La gente delle case intorno non si avvicina, teme, è chiaro che qualche cosa di tragico sia capitato.

Sono tra i primi quelli del Garavini a scoprire i 56 cadaveri: uomini, donne e molti bambini.

Lo fanno mentre liberano la città, che si trova proprio nel suo primo giorno nuovo di fronte alla sua più grande tragedia.

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