La Repubblica, 14 febbraio 2020
Nel sottile ma continuo cedimento italiano, che allontana progressivamente ogni giorno il Paese da un minimo ancoraggio condiviso di valori, regole, principi e misure, ormai un leader politico può attaccare un giornale in Parlamento, come se fosse normale nel costume democratico deformato in cui viviamo.
Impegnato a “difendere i confini d’Italia” Matteo Salvini ha infatti trovato il tempo di attaccare Repubblica nell’aula del Senato, chiamata a dar via libera al giudizio del tribunale di Catania sull’ex ministro dell’Interno per sequestro di persona, nel caso dei 131 migranti della nave Gregoretti tenuti al largo per quattro giorni.
La cornice era dunque solenne.
Da uomo di stato, Salvini avrebbe potuto difendere la sua condotta messa sotto accusa, illustrandone le ragioni in riferimento all’ordine ed alla sicurezza, spiegando le sue scelte sull’immigrazione finalmente in termini di politica e non di ossessione, davanti al Parlamento ed alla pubblica opinione.
Così fa un leader sicuro della propria linea e delle motivazioni che la sostengono, su un tema controverso che divide il Paese. Usando proprio la drammaticità politica del contesto per un discorso di razionalità e di coscienza.
Quel che è avvenuto è esattamente l’opposto.
Abbiamo infatti assistito al vittimismo dell’uomo forte, che non cambia mai idea e anzi si dichiara pronto a ripetere i comportamenti finiti sotto accusa, ma nello stesso tempo mentre mostra il petto convoca addirittura i figli — incolpevoli — nel collegio improvvisato di difesa, unendo il registro patetico al tono eroico.
Sono i due ingredienti fissi del populismo, che nei momenti di difficoltà chiede alle emozioni di correggere le situazioni sfavorevoli, presentate come manipolazioni della realtà. Abituato a sollecitare un sostegno belligerante quando va all’attacco, il leader populista si rifugia nella ricerca del consenso compassionevole, difensivo, quando deve proteggersi. Purché permanga il circuito di eccitazione politica con il suo popolo, il feeling istintivo, il Capo può mostrarsi di volta in volta vittorioso o addirittura ferito — naturalmente dall’ingiustizia — ma sempre innocente e comunque intatto, nel cerchio immobile del carisma perfetto.
Per tutto questo, sono necessari dei nemici: non avversari, com’è naturale nel gioco politico, ma nemici. Ecco dunque un titolo di giornale trasformato strumentalmente in atto d’accusa, un giudizio politico deformato in attacco alla persona, un obiettivo parlamentare truccato da caccia all’uomo. Con il proposito di costruire addosso a un organo di informazione una personalità criminale, grottesca e ridicola nella sua pretestuosa invenzione: ma utile ad additarlo all’opinione pubblica di riferimento come un persecutore da combattere.
E qui, come sempre a metà strada tra la coscienza avvertita di ciò che fa e l’istinto brado che lo trascina, Salvini mette in campo un altro aspetto fondamentale del populismo sovranista: l’insofferenza al controllo democratico. In nome del popolo, con una specie di trasferimento di sovranità, in tutto il mondo il leader sovranista è intollerante davanti al controllo di legalità della magistratura, al controllo di legittimità della Corte Costituzionale, al controllo politico da parte del Parlamento e dei cittadini, attraverso gli strumenti di informazione. L’attacco a Repubblica è esattamente questo: un invito offensivo a non disturbare il manovratore, a lasciar operare il carisma politico, a farsi da parte, sgombrando il campo.
Per questo stupisce l’insensibilità del sistema politico e di quello mediatico. Come se tutto fosse normale, pure questo continuo scendere di un gradino al giorno nella scala della civiltà italiana, fatta anche di misura, coscienza del limite, riconoscimento dei ruoli, nella differenza delle idee e nella libertà di giudizio reciproca.
Ovviamente i giornali si difendono da soli, con la loro storia, le loro idee, le loro firme e i loro lettori. Non è questo il punto. Ma il Paese sta diventando tecnicamente incosciente, mentre ottunde la sua sensibilità e disarma la sua reattività, come se tutto potesse accadere e nulla valesse la pena di un moto di ribellione. Come se fossimo davvero destinati a fare da comparse in costume a un leader che incredibilmente nell’Europa del 2020 si presenta come l’epico «difensore dei confini»: mentre il Piave, si presume, mormorava.