Il problema di essere esposti senza difesa è presente sin dai primi giorni partigiani: non si può pensare di affrontare la lotta con doppiette e vecchie pistole. C’è appena qualcosa in giro: fucili 91 e bandoliere lasciati insieme alle divise dai soldati in fuga verso casa nei giorni dell’8 settembre.
Servono di certo.
Anche se risultano ingombranti da nascondere e poco adatti alle azioni, sono più indicati i buoni mitra e iniziano, quindi, gli assalti alle caserme dei carabinieri e dei tedeschi.
I partigiani possono ben contare sull’effetto sorpresa e hanno dalla loro il coraggio, ma sanno che se entrano in conflitto risultano in netto svantaggio e la loro strategia è di intimidire, chiedere la consegna delle armi, fuggire.
In questo primo periodo importante risulta l’azione di Savio, dove, pochi giovani vestiti da militari, riescono a entrare nella locale caserma dei carabinieri e farsi consegnare l’intera armeria, compreso un buon quantitativo di munizioni, e a trasportarla a casa di contadini antifascisti di San Pietro in Vincoli, che la nascondono.
Nonostante le precauzioni ci sono i primi martiri: Dino Sintoni e Celso Strocchi.
Sono del Partito Comunista e a Ravenna, dove i rapporti tra le famiglie antifasciste sono solidissimi e i sentimenti di libertà espressi nel movimento garibaldino e nelle leghe hanno creato affetti fraterni, la cattura di un compagno pone gli altri in serie difficoltà sentimentali.
Però i partigiani reagiscono, si danno regole di vita clandestina, organizzazione.