L’ultimo esperimento che il laboratorio Italia sta regalando all’Occidente è inedito: una democrazia senza governo. Un sistema che galleggia, depauperando la scarsa ricchezza del Paese e la sua residua credibilità, tra spinte propagandistiche contrastanti che si neutralizzano a vicenda, incapaci di tradursi in politica: appunto perché mancano una guida, un indirizzo, una visione comune del futuro, la responsabilità di indicare un percorso di crescita e di sviluppo. È esattamente quel che tocca a ogni governo, sotto qualsiasi latitudine.
Ed è evidentemente quel che manca all’Italia, perché il governo non c’è.
Potremmo dire che non è mai nato.
Due mezzi vincitori che si erano contrastati in campagna elettorale con due diverse interpretazioni del populismo si sono coalizzati in nome dell’antipolitica, senza un’idea condivisa del Paese, ma con una comune pulsione di destra che punta ad azzerare la vicenda repubblicana, segnando un’ora “x” che riscriva la storia. Da una vittoria mutilata è nato un governo minimo, sospettoso e geloso, che ha trasformato il presidente del Consiglio da organo di indirizzo politico in semplice notaio del patto tra i due padroni dell’esecutivo, quasi un dipendente, costretto a replicare il mantra di un mondo nuovo che non ha la licenza nemmeno per immaginare, come il “cambiamento” che non c’è.
C’è invece un forte consenso per le due forze politiche che guidano il governo, a cui manca tuttavia la capacità di tradurre questo favore popolare in egemonia culturale.
È come se alla base del consenso ci fossero due correnti distinte di adesione, che non riescono a fondersi in una pubblica opinione comune. Questo capita quando ci si rivolge al risentimento più che al sentimento del Paese, agli istinti più che alle idee.
Aggiungiamo il fatto che nella clessidra sul tavolo del governo il favore dei cittadini scorre inesorabilmente dal cono dei Cinque Stelle a quello della Lega, che i due blocchi sociali della produzione e dell’assistenzialismo non si sono fusi in una soggettività politica capace di pretendere che il cambiamento passi dalle parole ai fatti. Il risultato è un’alchimia alla rovescia, con il consenso che non diventa politica, dunque governo, e finisce per disperdersi nella propaganda, come un bitcoin, una criptovaluta virtuale.
Abbiamo avuto molti governi mediocri, e alcuni pessimi. Ma non abbiamo mai visto la funzione dell’esecutivo così svuotata e delegata ai partiti di maggioranza, che la surrogano deformandola, perché riempiono ogni spazio non con la politica, ma con un suo sottoprodotto casuale, isterico ed estemporaneo: una corsa ad inseguimento di annunci e di veti reciproci, col famoso contratto che viene richiamato per diritto e per rovescio a sanare le divergenze che Lega e Cinque Stelle non riescono a comporre da soli. Col notaio che prende così il posto della cuoca di Lenin alla guida del governo.
Tutto questo ci porta a non sottovalutare come semplici litigi i contrasti quotidiani all’interno della maggioranza. Sono le variabili dell’esperimento impazzito, che prova a reggere una moderna democrazia senza il luogo proprio della mediazione e dell’autorità, della condivisione e della responsabilità. Il suprematismo dei due populismi non riconosce altra autorità che se stesso, e rifugge per natura il compromesso, come un vincolo improprio al libero dispiegarsi della predicazione che salverà il mondo.
Così le predicazioni, un anno dopo, restano due, ostinatamente autoriferite. Dalla Cina alla Tav, alla famiglia, alla flat tax, all’Alitalia, alla legittima difesa, alle infrastrutture, al decreto sblocca cantieri, all’ultimo condono edilizio, su tutto manca un’interpretazione condivisa capace di proiettare da Palazzo Chigi un’idea dell’Italia, e di segnare la cifra di questo esecutivo e di questa stagione politica.
Senza questo, i problemi marciscono, come nel caso della Tav, o si avvitano nelle opposte interpretazioni propagandistiche, in un’eterna campagna che non trova mai un punto fermo nella guida del Paese, nevrotizzato dalla febbre elettorale perenne.
È una buona notizia per la democrazia che si senta la mancanza di quello spazio insieme politico e istituzionale che deve tradurre gli impulsi e le culture dei partiti in indirizzo e amministrazione, e i legittimi interessi particolari nell’interesse generale: cioè in governo.
Ed è una pessima notizia, naturalmente, che l’Italia sia il laboratorio vivente della sperimentazione opposta, come se si potesse vivere senza governo, in preda a una continua pulsione da comizio, con le forze di maggioranza che si contrastano negli annunci più che nelle decisioni. E intanto soverchiano il governo come un’entità tecnica minore, quasi una meccanica, un impaccio costituzionale, nel Paese in cui all’improvviso tutto è politica, dunque niente è politica.
Nel vuoto del palazzo del potere, come scriveva Eugenio Scalfari nel primo numero di Repubblica, l’unica impronta riconoscibile è quella dello scarpone di Salvini, che chiude i porti alla nave umanitaria perché ha salvato 50 disperati, tra cui dodici minori, ordina di fermare le macchine, chiede l’arresto delle Ong: nel silenzio dei grillini, a conferma dell’istinto di destra che lega gli alleati-concorrenti.
È il solo tema su cui non c’è contrasto, e su cui prende forma l’immagine dell’esecutivo. Un governo forte coi deboli, con una postura disumana e feroce verso i migranti che non accresce per nulla la sicurezza degli italiani, ma insegue qualche voto in più. Al prezzo di un Paese spaventato e incattivito.